15.09.2010 | Sonja Lüthi

«L’architetto non è un fornitore di servizi»

L’architetto Valerio Olgiati, membro della Direzione SIA dal 2007, illustra nella seguente intervista, le motivazioni che spingono i promotori dell’architettura d'autore a impegnarsi in seno alla Società svizzera degli ingegneri e degli architetti (SIA), evidenzia il perché l’architettura sia da collocarsi a fianco dell’arte e spiega per quale motivo in Svizzera gli architetti siano defraudati dei propri diritti d'autore.

Sonja Lüthi: Signor Olgiati, lei è affiliato alla SIA da quasi 24 anni e da tre anni è membro della Direzione. Come architetto, per contro, lei è considerato piuttosto un ‹individualista›. Qual è stata la molla che l'ha spinta a impegnarsi a favore della SIA?
Valerio Olgiati: Non sono un individualista. Tutto quello che intraprendo a livello professionale avviene sempre all'interno di una squadra di lavoro. Per me tuttavia è importante fare un’architettura che sia anche d’autore, ovvero che parta da un’idea, da un concetto pensato individualmente e poi ampliato in un team.
La decisione di entrare a far parte della Direzione SIA è da attribuire soprattutto al fatto che condivido con la Società diversi interessi. Tra questi, in generale, l’arte del costruire e, in particolare, gli aspetti legati alla cultura architettonica. Un altro tema che mi sta particolarmente a cuore è la formazione; mi incuriosisce sapere come sia valutata e coordinata la formazione in Svizzera. E poi mi premono anche le questioni che concernono i diritti d’autore, un aspetto che a mio modo di vedere è particolarmente trascurato in Svizzera. Il diritto d’autore descrive il ‹diritto su un’idea›. In Svizzera l'architetto è visto come un fornitore di servizi e dunque è la prestazione a essere apprezzata e non tanto l'idea. L’idea non viene percepita, né plasticamente né idealmente, né tanto meno ricompensata. L’onorario percepito dall’architetto corrisponde solo alla prestazione fornita. Soprattutto quando si tratta di concorsi, in cui in realtà è l’idea premiata a rivestire un’importanza di primo piano per l'ente banditore, si sottovaluta nettamente ciò che possa essere il processo creativo, o perlomeno questo è quello che vivo nel mio quotidiano. Faccio un esempio. In un concorso indetto a Zugo per la costruzione di una sovrastruttura delle FFS lungo l’area dei binari, abbiamo potuto aumentare del 120% il valore di mercato ambito nella procedura concorsuale, e ciò grazie alla nostra idea, non alla prestazione fornita. Si parla di cifre dell'ordine dei milioni, eppure noi architetti non ne traiamo alcun vantaggio. Non mi riferisco all'onorario che corrisponde alla prestazione, bensì all'idea che l’architetto ha e dalla quale solo e soltanto il committente trae un profitto materiale. Oltre a questo plusvalore economico e tangibile, vi è naturalmente anche il plusvalore culturale e sociale che può essere generato da un'idea. Tale valore non è misurabile, dunque è ancora più difficilmente comunicabile, al punto che oggigiorno, nel quotidiano dell'architetto, tende a perdere importanza.

Che cosa rende culturalmente significativo un edificio?
Un edificio è culturalmente significativo se, al di là del discorso ecologico, economico e funzionale, si percepisce anche il contenuto intellettuale dell'opera, ovvero se, in altre parole, si riconosce l'intenzione di colui che ha ideato il progetto, l'idea trasformata in realtà.

Nel suo libro ‹Die Bedeutung der Idee› (l'importanza dell'idea) lei afferma che l’architettura dell’oggetto sia la sola architettura che abbia davvero valore. Potrebbe spiegare meglio questa sua asserzione?
Nell’architettura contemporanea vi sono due schieramenti: da un lato si sostiene che la figura dell’architetto-autore sia ormai scomparsa, e che oggi vi sia solo il team che coordina il processo creativo. Questo approccio conduce certamente a un’architettura utile, ma una vera e propria prestazione culturale secondo me può scaturire solo attraverso un processo intellettuale. E il processo intellettuale è legato all’oggetto. Dicendo questo non mi riferisco, come spesso si tende a credere, a un oggetto isolato e solitario, bensì a un oggetto i cui aspetti poggiano tutti su un’idea di fondo. Ciò vale tanto per una casa, quanto per un’intera città o un singolo dettaglio. 

Anche la sua brama di ‹architettura pura› va un po’ nella stessa direzione?
Sì, certo. Un’architettura ‹pura› può anche essere un insieme di contraddizioni se è solo pura nel senso di ‹coerente›.

La coerenza sta nell’idea
Lei sostiene di non creare le sue costruzioni. Cosa intende dire?
Con ‹creare› intendo dire conferire una forma, che può essere così o cosà, e poi cambiarla un po' o decidere di nuovo qualcos'altro, e via di seguito. È la cosa migliore quando una forma scaturisce da un'idea. Così non devo decidere se una forma è bella oppure no, poiché è semplicemente la conseguenza di un’idea.

Come si accorge se l'idea è quella giusta?
Questa è una delle più grandi discussioni che ho anche con i miei studenti. Non c'è una vera risposta.

Partendo da questo approccio, può dirci come si svolge una sua lezione?
Esattamente come quando sono nel mio studio. L’unica differenza è che non sono io ad elaborare l’idea, ma i miei studenti. Bastano pochissimi strumenti, niente schizzi né modelli, per evitare di cominciare a dilungarsi sul senso di una linea. Gli studenti mi presentano settimanalmente le loro idee. Nelle prime settimane di lavoro non voglio ancora vedere nessun progetto, voglio semplicemente ascoltare e cogliere le buone idee. Quando lo studente trova l'idea, il progetto può cominciare. A questo punto non occorre più chiedersi se una cosa sia bella oppure no, né tanto meno preoccuparsi che piaccia a me, basta domandarsi se si è riusciti a esprimere la propria intuizione. Ecco un esempio di idea creativa: una casa costruita in un bosco - il concetto abitativo ridotto agli aspetti fondamentali. La zona abitabile è ubicata sulla chioma dell'albero, con vista a perdita d'occhio, come sopra un grande mare. La zona notte invece è posta al sicuro, sotto la superficie terrestre, come le formiche che cercano riparo nelle ore notturne. La cucina è nella chioma dell'albero e ai piedi è sistemato il giardino. Dormire, mangiare, abitare e poi il giardino – ecco le parti integranti della casa. Una costruzione di questo tipo può essere rotonda o quadrata, in cemento, legno o acciaio, rossa o verde, storta o diritta. La forma non ha più alcuna importanza.

Per aguzzar l’ingegno
Il progetto descritto ha un non so che di archetipico. Che significato rivestono per lei, in architettura, gli archetipi?
Le rispondo, con una premessa. Fondamentalmente faccio la distinzione tra architetti che compongono e architetti che suddividono. Gli architetti che compongono si mettono a creare. Gli architetti che suddividono invece partono da un concetto che poi suddividono e fanno funzionare. Penso che ogni società voglia comprendere perché un edificio sia stato costruito in un certo modo piuttosto che in un altro. Se si entra in un edificio e ci si trova davanti una scala, si percepisce l'esistenza di un piano superiore. Se invece in una stanza ci sono due scale, ecco che ci si chiederà quale possa mai esserne il motivo. Forse non tutti giungeranno alle stesse conclusioni, quel che è certo è che saranno sollecitati a riflettere sulla vera logica di quel tale edificio. Ecco quel che cerco di fare con la mia architettura e Mario Carpo lo spiega molto bene nella monografia che ha scritto su di me. Se una macchina funziona, a nessuno viene in mente di pensare a come possa funzionare. Tuttavia, non appena si guasta, ci si interroga sui suoi reconditi meccanismi.

Questo voler dare uno strappo alla regola, non è forse piuttosto compito dell’arte?
Per me quello che faccio è ‹arte›. Forse arte non è proprio la parola giusta, ma la parola giusta per descrivere quello che faccio per il momento non l'ho ancora trovata. Quel che intendo dire è che noi architetti ci muoviamo nello stesso ambito disciplinare degli artisti, con la sola differenza che la nostra arte è anche e sempre un oggetto d’uso comune.

A questo proposito mi viene in mente un’affermazione dell’architetto olandese N. John Habraken. Nel suo articolo ‹You can’t design the ordinary› del 1974, egli paragona gli architetti al re Mida. Proprio come vuole la leggenda, anche gli architetti trasformerebbero tutto ciò che toccano in oro. E non ci sarebbe più pane. In altre parole, egli si chiede che cosa mai accadrebbe se tutte le costruzioni fossero soltanto oggetti contemplativi.
E se anche fosse? Le mie opere soddisfano i requisiti ecologici e tecnici, e funzionano a regola d’arte. Quando ci si trova all’interno, si dimentica totalmente l'architettura, ci si sente liberi, liberi di essere sé stessi. Se tutte le costruzioni fossero così, non formali al loro interno, il mondo sarebbe più bello e potrebbe nel contempo funzionare ottimamente. Le mie case non sono certo fatte d’oro, sono oro e pane allo stesso tempo! (risata)

In una discussione avuta con alcuni studenti lei sostiene che l'architetto è responsabile solo verso sé stesso. Potrebbe spiegare meglio che cosa intende?
In fin dei conti è l'architetto che deve prendere, da solo, certe decisioni. Se non fosse così non ne verrebbe fuori nulla di buono.

La forma innanzi tutto
Come definisce la responsabilità dell'architetto nei confronti della società?
Per me è importante presentare alla gente un'idea che si è materializzata, una forma trasformatasi in plusvalore culturale in grado di far muovere la società. Questa è arte. Tutto il resto, l’ecologia, l’economia, la funzionalità vanno da sé. Ciò a cui lei forse allude, ovvero tutto il discorso sulla sostenibilità, è un problema tecnico, forse anche politico, ma sicuramente non una questione esistenziale e pertanto non mi interessa come idea di fondo per un progetto. Per evitare malintesi ci tengo a precisare che Haus Bardill è una casa a energia zero, tanto per fare un esempio. Il problema è che coloro che si occupano di questo ambito, spesso fanno della sostenibilità la propria morale e tale atteggiamento si riversa a livello politico e sociale. La cosa assurda in tutto questo però è che la morale non è valida ovunque in modo generico. Ogni società ha una morale diversa, dipendente da parametri temporali, locali e storici. Non posso certo dipendere da una concezione di questo tipo. Quel che per me conta è riuscire a esprimere, con la mia architettura, qualcosa di vero, il più generico possibile, ma il più possibile vicino alla verità – nel senso di coerente e puro. E la verità non è né bella né brutta, né caotica né ordinata, né ecologica né anti ecologica, ma sensata. Sono fermamente convinto che l’architettura sia una disciplina che ricerca innanzitutto la forma, e poi l’espressione del singolo e della società in tale forma.

 

Valerio Olgiati ha concluso gli studi di architettura nel 1986 presso il Politecnico federale di Zurigo e da allora è libero professionista. Dal 2008 ha il suo studio a Flims con la sua partner Tamara Olgiati e 8 altri collaboratori. Già il suo primo progetto, «Casa Kucher» (1991), a Rottenburg, ha riscontrato ampia eco sulla stampa internazionale. Hanno fatto seguito altri sensazionali progetti, tra cui la «Scuola di Paspels» (1998), la «Casa Gialla» (1999) di Flims , l’«Atelier Bardill» (2007) costruito a Scharans per il cantautore svizzero tedesco Linard Bardill e il «Centro per i visitatori del Parco Nazionale Svizzero» (2008) a Zernez. Parallelamente alla sua attività di architetto, Valerio Olgiati è attivamente impegnato nell’insegnamento. Dal 2001 è professore ordinario presso l’Accademia di Architettura di Mendrisio.